Negli anni ‘90, l’attesa per l’inizio del nuovo millennio era a dir poco spasmodica. La curiosità per l’avvento del fatidico e tanto atteso 2000, infatti, era particolarmente elevata, consci che una nuova epoca era ormai alle porte. E quanto avvenuto, poi, non è stata nient’altro che una conferma. Anche nel mondo del calcio qualcosa, a cavallo tra le fine e l’inizio del nuovo millennio, sembrava destinata a cambiare nel territorio italiano.
Il dominio delle tre grandi squadre del Nord, infatti, sembrava esser messo a serio rischio dalla presenza di altre quattro squadre in grado di competere per lo Scudetto: Parma, Fiorentina, Lazio e Roma. Un periodo storico di massimo splendore, consegnato ai libri di storia calcistica come l’era delle “sette sorelle”, dove i grandi giocatori non giungevano solo a Milano o a Torino.
Una rosa profonda magistralmente orchestrata dalla saggezza di Sven Goran Eriksson
Ed è proprio nel 2000 che il calcio italiano, dopo un decennio di egemonia bianconera e rossonera, trovò un nuovo padrone: la Lazio. A distanza di 26 anni dallo storico successo della squadra che vinse il primo alloro nazionale, il popolo biancoceleste, attaccato ai propri colori come pochi altri in Italia e costantemente alla ricerca delle più autorevoli Lazio News, tornò ad esultare per uno Scudetto che solo dodici mesi prima era sfuggito per un non nulla.
Era una Lazio splendida, scintillante, con una profondità della rosa estremamente importante, che Sven Goran Eriksson, grazie alla sapienza e saggezza che lo contraddistinguevano, riuscì a ruotare magistralmente ottenendo un double nazionale (campionato e Coppa Italia) unico nella gloriosa storia del club biancoceleste, in una stagione iniziata trionfalmente grazie alla vittoria della Supercoppa Europea a discapito del Manchester United di Ferguson.
Un “undici fisso”, di conseguenza, non era definito integralmente, ma in base al minutaggio complessivo è stato possibile individuare la squadra titolare di quella magica stagione, restata nella storia del calcio nostrano anche per quanto avvenne a Perugia, dove la Juventus fu sconfitta in modo rocambolesco consegnando il Tricolore alla compagine romana.
La solida difesa dello Scudetto, con una coppia centrale dominante
Anche il modulo era piuttosto cangiante, nonostante il 4-5-1, in chiave piuttosto offensiva, era quello prediletto dal tecnico svedese. Partiamo dalla difesa. Il portiere titolare era Luca Marchegiani, una bandiera della Lazio, uno dei primi “acquisti pesanti” dell’era Cragnotti, strappato a suon di miliardi al Torino di Borsano. Un estremo difensore affidabile, sicuro, che dopo la conquista del Tricolore fu relegato al ruolo di dodicesimo complice l’arrivo in biancoceleste di Angelo Peruzzi.
La casella di terzino destro era appannaggio di Paolo Negro, giunto a Roma in giovane età dopo un’ottima stagione nel Brescia di Mircea Lucescu, cresciuto esponenzialmente durante la sua lunga militanza biancoceleste che gli ha consentito di ottenere anche un titolo di Vice-campione d’Europa con la nazionale di Dino Zoff. A sinistra, invece, giocò prevalentemente Pippo Pancaro, giocatore di assoluto affidamento, cuore, polmoni e un’innata capacità di andare sul fondo e crossare invitanti palloni in area di rigore.
La coppia centrale difensiva era composta da Sinisa Mihajlovic e Alessandro Nesta, due nomi che non hanno certo bisogno di grandi presentazioni: il primo, grazie anche alla grande capacità nella trasformazione dei calci piazzati, ha fornito un contributo determinante per la vittoria dello Scudetto; il secondo, cresciuto nel vivaio e laziale sino al midollo, è stato il capitano di quella splendida stagione, da molti definito il più forte difensore centrale nella storia del calcio italiano.
Il fenomenale centrocampo della Lazio dello Scudetto
La mediana, invece, vedeva la presenza di due argentini arcigni e determinati come Matias Almeyda e Diego Pablo Simeone, quest’ultimo estremamente prezioso anche in chiave offensiva grazie ad una spiccata abilità nell’attaccare lo spazio e andare a segno. Il vero play a tutto campo, invece, era Juan Sebastian Veron, calciatore dai piedi educati e raffinati, con visione di gioco eccelsa e tecnica a dir poco sopraffina.
Grandi giocatori anche sugli esterni. A destra, nonostante un vistoso calo di rendimento nella parte finale della stagione (dove collezionò svariate panchine), furoreggiava Sergio Conceicao, che l’anno precedente, grazie a prestazione di altissimo livello, entrò nel cuore dei tifosi biancocelesti, mentre a sinistra dominava Pavel Nedved, altro personaggio che non ha certo bisogno di presentazioni.
Il ruolo di punta centrale era affidato a Marcelo Salas, attaccante che, a dispetto dell’altezza non propriamente elevata, aveva nel colpo di testa – grazie ad uno stacco impetuoso – uno dei suoi punti di forza. Nel finale di stagione, però, Eriksson preferì affidarsi a Simone Inzaghi, ritenuto più utile, in virtù di una grande capacità di fare da “boa” per gli inserimenti dei centrocampisti, per l’armonioso sviluppo della manovra offensiva biancoceleste.